Nei pazienti con diabete va ricercata la presenza di steatosi epatica non alcolica

Secondo uno studio pubblicato sullo Scandinavian Journal of Gastroenterology, nei pazienti con diabete di tipo 2 seguiti da medici di base in Svezia esiste un’alta prevalenza di steatosi epatica non alcolica (NAFLD), e questi pazienti sono seguiti in maniera molto blanda, e non vengono inviati a ulteriori indagini.


“La steatosi epatica non alcolica è più comune nei pazienti con diabete mellito di tipo 2 rispetto alla popolazione generale, tanto che le linee guida recenti raccomandano lo screening per la NAFLD nei pazienti con diabete di tipo 2. Il nostro obiettivo era quello di indagare la prevalenza della NAFLD nei pazienti con diabete di tipo 2 in un contesto di assistenza sanitaria di base svedese, di capire come vengono curati” spiega Martin Bergram, della Linköping University, in Svezia, che ha diretto il gruppo di lavoro.


I ricercatori hanno valutato i dati di pazienti con diabete di tipo 2 provenienti da cinque centri di assistenza sanitaria di base. Le cartelle cliniche sono state riviste in modo retrospettivo e le abitudini di vita, l’anamnesi, i risultati della diagnostica per immagini e le caratteristiche antropometriche e biochimiche sono state annotate in una forma standardizzata. Il rischio di steatosi e fibrosi avanzata è stato valutato utilizzando algoritmi comuni (FLI, HSI, NAFLD-LFS, NAFLD ridge score, FIB-4 e NFS).


In totale sono stati inclusi 350 pazienti. In 132 pazienti sono stati effettuati esami di diagnostica per immagini, e in 34 (26%) è stata rilevata una steatosi, che non risultava nelle cartelle cliniche di 16 di questi (47%). Un paziente con steatosi era stato indirizzato a un epatologo. Dei pazienti valutabili, il 71-97% aveva un rischio da alto a intermedio di steatosi e il 29-65% aveva un rischio da intermedio ad alto di fibrosi avanzata secondo gli algoritmi utilizzati.


“L’utilizzo di algoritmi per la fibrosi nell’assistenza sanitaria di base potrebbe portare molti pazienti a richiedere un’ulteriore valutazione nell’assistenza secondaria, e quindi a migliorare la loro condizione” concludono gli autori.


Fonte: Scandinavian Journal of Gastroenterology

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