Medicina interna. “Il sistema è ormai tutto da rivedere”
18.10.2023 | Quotidiano Sanità
Sono circa mille i reparti di medicina interna, distribuiti all’interno di 995 strutture ospedaliere italiane, che gestiscono circa 30mila posti letto (su un totale di 220 mila posti letto ospedalieri). Il 13% di tutti i ricoveri di tutte le specialità mediche e chirurgiche e con un carico di lavoro che aumenta nel periodo estivo di circa il 35%. Una parte di questi reparti, circa 30%, si trova in ospedali generalisti a bassa intensità o in zone ‘disagiate’, che spesso riferiscono i pazienti più complessi a strutture di secondo livello, secondo un modello spoke and hub. Medicine interne ‘non a elevata complessità’ che vanno rimodulate per dare risposte migliori al bisogno di cura dei pazienti. Il 70% delle medicine interne italiane si trova invece all’interno di strutture ospedaliere di elevato livello, dove si gestiscono pazienti complessi. Una complessità che andrebbe declinata in attività concrete che rimangono al palo perché ancorate ad un decreto di 35 anni fa (decreto ministeriale Donat Cattin sugli standard ospedalieri del 13/08/1988) che, nella tabella che indica la complessità dei reparti, pone la medicina interna tra quelle a bassa specialità.
Questi i messaggi lanciati dalla Società Italiana di Medicina Interna Simi alla vigilia del 124° Congresso nazionale a Rimini.
“Nelle medicine interne gestiamo pazienti complessi – spiega Gerardo Mancuso, vice-presidente della Società Italiana di Medicina Interna, Simi e presidente eletto – con più patologie. E il loro elevato indice di complessità è testimoniato da un peso medio del DRG molto alto; oggi il peso medio del DRG per quasi tutti i pazienti ricoverati in medicina supera l’1,1 e la gran parte delle strutture internistiche genera pesi di 1,3. Per fare un raffronto, reparti considerati ad alta complessità come le UTIC (unità di terapia intensiva coronariche) hanno un DRG di 1,2, spesso inferiore dunque a quello dei pazienti internistici”.
Quelle leggi da rivedere perché penalizzanti per la medicina interna 3.0. “Ma questa complessità – prosegue il professor Mancuso – andrebbe declinata in attività concrete. E invece, rimaniamo ancorati ad un decreto di 35 anni fa (decreto ministeriale Donat Cattin sugli standard ospedalieri del 13/08/1988) che, nella tabella che indica la complessità dei reparti, pone la medicina interna tra quelle a bassa specialità”.
Ma questo non è più così, le cose sono cambiate. “Chiediamo dunque la revisione di questa tabella – afferma Mancuso – perché ha ricadute anche sulle piante organiche dei sanitari (medici, infermieri, OS), che vengono definite in funzione di questa tabella”.
Istituzionalizzare l’attività subintensiva internistica. Con oltre il 70% dei pazienti Covid in Italia assistiti in medicina interna, la pandemia da Covid-19 ha messo decisamente sotto gli occhi di tutti che il servizio sanitario ha necessità di organizzare anche una assistenza di tipo sub-intensiva. Questa viene svolta quotidianamente nelle medicine interne ad alta intensità, ma con carenze di organico e di dotazioni. “La nostra proposta – afferma il professor Mancuso – è di istituire delle unità di subintensiva internistica, alla stessa stregua di quelle esistenti in cardiologia o in pneumologia. Attualmente queste unità di subintensiva internistica sono presenti in meno del 10% dei reparti di medicina interna italiani, ma sono strategiche perché rispondono al bisogno di assistenza dei pazienti più complessi che, nei nostri reparti, vediamo con sempre maggiore frequenza e che hanno bisogno di monitoraggio e di strumenti adeguati. Abbiamo dunque proposto di istituzionalizzare delle unità di subintensiva in quel 70% dei reparti di medicina interna in Italia che gestiscono i pazienti più complessi. Anche questa proposta era stata accolta favorevolmente dal Ministero, poi si è tutto arenato perché anche questo provvedimento è legato alla revisione del DM 70/2015”.
La nuova vocazione dei reparti di medicina interna ad alta e bassa intensità. “I reparti di medicina interna a bassa intensità – sostiene poi Mancuso – hanno una necessità di revisione del loro ruolo. Quelli che si trovano in zone disagiate devono rimanere attivi, potenziando magari il pronto soccorso di questi ospedali. Ma molte Regioni hanno chiuso molti di questi reparti a bassa intensità e li hanno riconvertiti in lungodegenze. Al contrario, i reparti di medicina interna ad elevata intensità di cura vanno invece potenziati attraverso la revisione della legge Donat Cattin e attraverso la revisione della rete ospedaliera italiana e l’inserimento della subintensiva internistica. Questo consentirebbe di fare un passo in avanti nell’assistenza e di avvicinarci a quanto già avviene nei Paesi del nord Europa e anglosassoni”.
Piante organiche. Il piatto della medicina interna piange anche rispetto al numero degli specialisti. E se al Nord la carenza è del 10%, al Sud arriva e supera il 20%. Colpa anche dei tagli delle piante organiche degli ultimi anni. “È una situazione difficilmente sostenibile – afferma il professor Mancuso – perché le attività e la loro qualità sono in funzione del numero delle persone. A risentirne ad esempio può essere l’attività ambulatoriale, se il personale deve essere dedicato alle attività di assistenza ai pazienti ricoverati e questo va a gravare sulle liste d’attesa, che non potranno mai essere abbattute se non c’è personale sufficiente da dedicare all’attività ambulatoriale. Anche questo riporta alla necessità di revisione della legge Donat Cattin che è quella che individua il numero di personale da assegnare ad ogni unità operativa”. Negli ospedali Italiani mancano 30.000 medici di cui il 7% di Medicina Interna e questo mette in difficoltà l’organizzazione del lavoro e l’erogazione dei servizi di assistenza sanitaria”.
“Lo ‘Specialista Internista’ – commenta il professor Giorgio Sesti, presidente della Società di Medicina Interna – in quanto specialista dei pazienti complessi è il primo e ideale interlocutore del medico di medicina generale, sia nella fase diagnostica e gestionale di quadri complessi, sia nel coordinamento dei diversi specialisti d’organo coinvolti nel piano di cura dei pazienti. L’uso della Telemedicina e del Teleconsulto potrebbe consentire l’invio dei pazienti complessi verso percorsi ospedalieri ambulatoriali/Day Hospital/PAC evitando ricoveri inappropriati e sovraffollamento degli Ospedali”.