Long Covid. La pandemia invisibile che continua a colpire. Ocse: 1 paziente su 14 ne soffre ancora

L’Italia tra quelli messi peggio

Cinque anni dopo l’inizio della pandemia, mentre il mondo cerca di lasciarsi alle spalle il trauma collettivo del COVID-19, una nuova crisi sanitaria silenziosa si afferma con forza nei sistemi sanitari: il Long COVID. Secondo i dati dell’OCSE, raccolti attraverso la survey internazionale PaRIS, il 7,2% della popolazione over 45 che si rivolge ai servizi di cure primarie nei Paesi OCSE ha dichiarato di aver sofferto o soffrire ancora di Long COVID. E il 5,1% continua ad avere sintomi persistenti. Numeri che raccontano un’epidemia cronica, spesso sottovalutata e mal gestita.

In Italia, una delle prevalenze più alte in Europa
Tra i Paesi OCSE analizzati, l’Italia registra una delle percentuali più alte di Long COVID nella popolazione assistita in cure primarie: circa il 9% dei pazienti over 45 ha riferito di aver sperimentato sintomi prolungati dopo il COVID. Inoltre, il 22,9% delle persone che hanno avuto l’infezione ha riportato sintomi compatibili con Long COVID, il dato più alto fra i Paesi europei coinvolti nella survey PaRIS.

Anche la persistenza oltre i 12 mesi dei sintomi è elevata: quasi il 4% dei pazienti italiani continua a manifestare disturbi legati al Long COVID. Questo colloca l’Italia in una fascia alta di incidenza, subito dietro Norvegia e Islanda.

Sintomi persistenti e diagnosi difficili

Il Long COVID – una condizione caratterizzata da sintomi che si protraggono per più di tre mesi dopo l’infezione iniziale – è un rebus ancora poco decifrato per la medicina. I pazienti raccontano un’esperienza clinica frammentata, fatta di stanchezza estrema, dolori muscolari, disturbi respiratori, neurologici e psicologici. La fatica cronica, per esempio, colpisce un paziente su cinque con Long COVID, il doppio rispetto alla media degli altri pazienti.

Eppure, il riconoscimento ufficiale della condizione rimane discontinuo: solo due terzi dei Paesi OCSE adottano una definizione standardizzata (OMS o NASEM), e meno della metà ha sviluppato percorsi di cura strutturati.

I più colpiti? Donne, giovani e chi ha già malattie croniche
Contrariamente all’immaginario comune che associa le complicanze COVID agli anziani, il Long COVID colpisce con maggiore frequenza donne tra i 45 e i 54 anni e persone con un alto livello di istruzione. Inoltre, il rischio aumenta con il numero di patologie croniche preesistenti. Ma anche in assenza di altre malattie, il 6% dei pazienti riferisce di aver sperimentato sintomi prolungati.

Fiducia in calo nel sistema sanitario
I numeri sono chiari anche su un altro fronte preoccupante: chi ha il Long COVID mostra una minore fiducia nel sistema sanitario. Solo il 58% di questi pazienti dichiara di fidarsi del proprio sistema di cura, contro il 64% di chi non ha avuto Long COVID. Un terzo di loro ha dovuto ripetere le stesse informazioni cliniche più volte, segno di una mancata integrazione tra i professionisti e i livelli di cura.

Una sfida per la sanità pubblica
Il Long COVID, pur non impattando in modo significativo sull’occupazione secondo i dati PaRIS (una media del 13% è in malattia o disoccupata, dato simile a quello della popolazione generale con patologie croniche), pone interrogativi cruciali sulla sostenibilità dei sistemi sanitari e sul carico di malattia nel lungo periodo. Circa il 3,5% dei pazienti continua a manifestare sintomi oltre l’anno dall’infezione.

Servono percorsi dedicati e formazione
L’OCSE lancia un messaggio chiaro: bisogna investire in formazione del personale sanitario per migliorare il riconoscimento dei sintomi e definire percorsi di cura standardizzati. In gioco non c’è solo la salute individuale, ma la fiducia stessa nella medicina e nella capacità dei sistemi di prendersi cura dei cittadini.

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