Long COVID: la nuova sfida clinica post-pandemia

Il long COVID è una condizione clinica particolarmente diffusa e con conseguenze di vasta portata sia a livello individuale che sociale. Si stima che circa il 31% dei sopravvissuti al COVID-19 sviluppino sintomi persistenti, come affaticamento, dispnea, dolori muscolari, disfunzioni cognitive e disturbi neuropsichiatrici, che possono durare mesi o persino anni dopo l’infezione acuta. Questa condizione è stata definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come un insieme di sintomi che insorgono tre mesi dopo l’inizio dell’infezione, e che durano almeno due mesi e non possono essere spiegati da altre diagnosi. Tra i meccanismi principali che contribuiscono al long COVID vi sono l’infiammazione cronica, la disfunzione mitocondriale, la compromissione del microbiota intestinale e i danni diretti o indiretti agli organi causati dall’infezione virale.

La diagnosi si basa sull’uso di biomarcatori specifici come il D-dimero, la proteina C-reattiva (PCR) e l’interleuchina-6 (IL-6), che possono aiutare a confermare la presenza di un’infiammazione persistente e a stabilire un nesso causale tra l’infezione acuta e le complicanze a lungo termine. A corredo delle indagini sui biomarcatori è raccomandabile includere test di funzionalità polmonare, imaging cardiaco, valutazioni neuropsicologiche e screening per eventuali complicanze multi-sistemiche così da meglio delineare le specificità del quadro clinico in esame.

Allo stato corrente il trattamento della patologia prevede l’impiego di antinfiammatori, integratori nutrizionali come Coenzima Q10 e omega-3, e interventi mirati alla modulazione del microbiota intestinale attraverso probiotici. Anche il trattamento dei sintomi specifici, come la riabilitazione polmonare e l’uso di corticosteroidi per la gestione dell’infiammazione, si è dimostrato efficace nel migliorare la qualità della vita dei pazienti.

In ottica preventiva, lo strumento maggiormente indicato in contrasto al long COVID è la vaccinazione contro il SARS-CoV-2, che non solo riduce la gravità dell’infezione acuta, ma diminuisce anche il rischio di sviluppare complicanze a lungo termine. Le evidenze scientifiche ad oggi disponibili dimostrano che i pazienti vaccinati hanno una minore probabilità di riportare sintomi di long COVID rispetto ai non vaccinati. Le altre misure di prevenzione che risultano sempre consigliate e applicabili prevedono una gestione attenta delle condizioni preesistenti e l’adozione di stili di vita sani, come una dieta equilibrata e un’attività fisica regolare, che possono contribuire a ridurre il rischio di complicanze.

In conclusione, il long COVID rappresenta una condizione comune tra gli individui affetti dall’infezione primaria che è tuttavia aggredibile su più livelli. Il primo strumento è l’adesione al piano vaccinale per prevenire l’insorgenza dei sintomi e ridurre le complicanze per cui è raccomandabile che i medici sensibilizzino le persone sui rischi e le conseguenze della patologia. Al contempo, la ricerca di base nel prossimo futuro è chiamata ad isolare nuovi biomarcatori diagnostici ed opzioni terapeutiche efficaci a vantaggio della salute pubblica negli anni a venire.

 Fonte: International Journal of Biological Sciences. 2022

https://www.ijbs.com/v18p4768.htm

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