Aumentato rischio di IBD tra chi ha infezione da salmonella non tifoidea
L’infezione da salmonella non tifoidea sarebbe associata a un aumentato rischio di sviluppare malattia infiammatoria intestinale (IBD), soprattutto colite ulcerosa. […]
La gestione della malattia di Fabry può essere migliorata con l’identificazione di biomarkers che riflettano il decorso clinico, la gravità e la progressione della malattia. A fare il punto sugli avanzamenti in questo campo è una review pubblicata dall’International Journal of Molecular Sciences da un team di ricercatori italiani dell’Università di Palermo, guidati da Antonino Tuttolomondo e Irene Simonetta.
La malattia di Fabry è un raro disturbo dovuto a difetti di accumulo causati da deficit dell’enzima α-galattosidasi A, che determina un coinvolgimento multisistemico. Attualmente, la globotriaosilsfingosina (Lyso-Gb3) viene misurata nel plasma come biomarker della forma classica della malattia di Fabry, sia nello screening che nel valutare l’attività della malattia e la risposta ai trattamenti. Tuttavia, secondo gli autori, ad oggi non ci sono dati a lungo termine sui risultati a livello clinico che i pazienti raggiungono con una riduzione dei livelli di Lyso-Gb3.
Negli anni, poi, si sono svolte molte ricerche per individuare nuovi marcatori da usare nella pratica clinica, anche specifici sul coinvolgimento d’organo, come rene e apparato cardiovascolare. In particolare, Simonetta e colleghi si soffermano sul ruolo dei microRNA come nuovi potenziali markers. Inoltre, sono in corso studi di proteomica e metabolomica che potrebbero aiutare a definire i profili proteomici dei pazienti con malattia di Fabry, una valutazione che può essere utile per caratterizzare la patologia a livello molecolare, per migliorare il processo diagnostico e monitorare la risposta al trattamento.
Fonte: International Journal of Molecular Sciences